Un capitello dedicato a Sant'Antonio (Paola Cappellari)
Un capitello dedicato a Sant'Antonio simbolo di fede e di riconoscimento.
A Foza c'è sempre stata una grande devozione per Sant'Antonio da Padova: a Lui è stata dedicata anche la "Casa della Dottrina" con la Cappellina per la celebrazione della S. Messa.
Ci sono inoltre alcuni Capitelli e nicchie con l'immagine del Santo che rappresentano un segno concreto di fede e di speranza.
Una nota di attenzione merita certamente quello eretto dai fratelli Marcolongo (Togneti) vicino alla loro abitazione in via Valcapra.
Si distingue da tutti gli altri per la struttura che rappresenta una chiesetta con il campanile tutta rivestita di mattoni, un lavoro paziente che ha richiesto una certa competenza. Questo capitello è stato edificato nel 1984 per esaudire un desiderio di tutta la famiglia Marcolongo ma in particolare dei genitori.
Il papà Antonio, proprio due giorni prima di morire mentre chiedeva ai figli a che punto fossero i lavori della loro abitazione, raccomandò che quando fossero stati completati definitivamente ricordassero la promessa fatta al Santo con un segno concreto.
Il voto si riferisce a due fatti che toccarono particolarmente la famiglia Marcolongo.
Il primo risale al 1955 periodo in cui a Foza c'era una grande crisi economica perché non si trovava lavoro, l'unica fonte di guadagno era rappresentata dal recupero. Tutti cercavano sulle montagne residui bellici per poi venderli e ricavarne qualcosa per la famiglia: anche se erano in molti trovavano sempre qualcosa, il più delle volte però si trattava di elementi pericolosi che potevano scoppiare con pericolose conseguenze. Anche i fratelli Domenico e Aldo Marcolongo salirono sulla cima dell'Ortigara a setacciare quelle rocce crivellate dai colpi; si fermarono tutta la settimana e poi al sabato rientravano a casa con il gruzzoletto per comperare il pane ai più piccoli.
C'erano molti compaesani tra i quali Alberti Alfredo con i figli, Marco Marcolongo (Mascaro) con i figli Antonio e Giovanni.
Domenico ricorda in particolare Marco perché ogni sera con il gruppo di recuperanti alloggiati presso il rifugio, da Foza saliva sotto la colonna che sostiene la statua della Madonna per recitare il rosario poi scendevano e si soffermavano in preghiera vicino all'ossarietto per ricordare i caduti su quelle montagne.
Facevano una chiacchierata sul loro lavoro, sul paese e su qualche fatto di cui si parlava e quindi andavano a dormire. Le persone erano tante e lo spazio limitato per cui bisognava adattarsi come si poteva, l'importante era avere un riparo e soprattutto riposare per salire poi di buon mattino fra quei sassi e trovare qualcosa.
Il cinque giugno pioveva per cui uscirono solo il pomeriggio e Domenico ricorda così quel tragico giorno.
"Quel giorno eravamo saliti attentamente fino al "Passo dell'Agnella": mio fratello Aldo esaminava attentamente il terreno roccioso con la calamita mentre io scavavo con piccone non appena arrivava un segnale.
Avevamo già riempito uno zaino di schegge dal peso di circa 30 Kg e tenevamo una certa quantità di "materiale prezioso" cioè rame e palline di piombo in un vaso di latta di quelli che usavano nei negozi di alimentari per contenere la conserva. Eravamo soddisfatti della raccolta ed io pensavo di scendere con quel carico quando il radar con un segale ben preciso chiamò la mia attenzione. Mi misi con lena a scavare e ne uscì un 105 a gas lacrimogeno; era tutto arrugginito e sporco di terra tanto che a prima vista mi è sembrato un 149.
Mio fratello Aldo lo esaminò subito e ci rendemmo conto che si trattava di un ordigno pericoloso pertanto era necessario maneggiarlo con cura insieme abbiamo deciso di portarlo giù ai piedi del Lozze dove c'era Alfredo Alberti che lo avrebbe acquistato per 50 lire e quindi lo faceva brillare in una galleria.
Senza pensarci due volte misi in spalla lo zaino poi con la mano sinistra presi il vaso di latta ed il piccone quindi mio fratello mi caricò sulla spalla destra il pesante ordigno che io cercai di appoggiare al collo mentre con la mano lo sostenevo tenendolo dalla parte inferiore. Mi incamminai lentamente con la massima cautela ma man mano che procedevo mi rendevo conto che non ce l'avrei fatta, tuttavia volli fermarmi perché pensavo che poi non sarei più riuscito a rimettermi in spalla la bomba da solo.
Dopo aver percorso una ventina di metri, forse per il peso eccessivo o forse per la difficoltà del sentiero, l'ordigno mi scivolò dalla spalla ed io ben consapevole del pericolo cercai di reggerlo con la mano facendolo scendere lentamente verso il braccio. Non so come sia potuto succedere perché fu un attimo: un fischio assordante seguito da una forte detonazione che mi fece rimbombare la testa.
Non sentivo più il braccio destro tutto dilaniato dalle ferite mentre un dolore lacerante mi prendeva le gambe ed il sangue usciva abbondantemente tanto che in un batter d'occhio lo vidi uscire perfino dagli stivali. Mio fratello corse a gambe levate invocando aiuto con quanta voce aveva in gola, altri recuperanti, spaventati dall'esplosione accorsero e mi prestarono le prime cure.
Subito si resero conto della gravità della situazione.
Per fortuna sulla cima Caldiera c'era un gruppo di ragazzi accompagnati da un sacerdote il quale sentì e mi raggiunse subito. Fermò mio fratello che nel frattempo mi aveva caricato in spalla e con l'aiuto dei compagni mi stava portando a valle dove avevano una bicicletta che sarebbe servita per accompagnarmi all'ospedale; lo invitò a rimettermi a terra quindi lo rassicurò che avrebbe provveduto lui a qualsiasi cosa. Si sedette accanto a me, mi confessò e ricordo che mi chiese se avevo qualche scrupolo di coscienza e so che io gli risposi che l'unica cosa sbagliata della mia vita era quella di aver raccolto quel maledetto ordigno.
Mi parlava continuamente guardandomi fisso negli occhi, mi incoraggiava e mi diceva che mi sarei salvato e che avrei fatto una famiglia e poi rivolgendosi a mio fratello aggiunse con tono convincente: " quest'uomo non è più in pericolo, ce la farà, ammazzatemi se ciò non fosse vero…".
Più mi fissava e più sentivo che il dolore si attenuava e notai anche che il sangue non usciva più dalle ferite. Io non so quale potere avesse quel prete, piccolo di statura ma con due occhi molto potenti, certamente aveva una forza interiore sovrumana.
Mi portarono al piazzale dove c'era la corriera che aveva accompagnato la comitiva del prete e quindi mi trasportarono all'ospedale di Asiago, il prete e mio fratello erano sempre vicini a me.
Ricordo che quando mi portarono giù dalla corriera era come se fossi stecchito, non potevo muovere né braccia né gambe anche se non erano fasciate e soprattutto non sentivo alcun dolore, secondo me è stata proprio la facoltà esorcizzante del prete a rendermi così.
Mi prestarono subito le cure necessarie e mi portarono nel reparto di chirurgia. Il prete era sempre con me e mi rassicurava con grande conforto, diceva che aveva parlato con il primario il quale lo aveva rassicurato che me la sarei cavata.
Io sapevo che non aveva neppure visto il primario però era convinto di quanto diceva perché era lui che aveva avuto il grande potere, era lui il vero guaritore.
Quando mi salutò mi disse di non cercarlo perché non l'avrei trovato neanche se avessi consumato un paio di scarpe: l'avrei rivisto un giorno in Paradiso davanti a Dio. Mio fratello Aldo rimase accanto a me per la trasfusione diretta e poco dopo arrivarono anche i familiari e ricordo che la mamma mi guardava e mi ripeteva che Sant' Antonio mi avrebbe aiutato che avrebbe fatto un voto.
Tutta la famiglia pregò il Santo di Padova e sono sicuro che lui mi ha aiutato. Rimasi all'ospedale sette mesi, ne uscii guarito ma con la mano destra completamente invalida. Cercai il prete che mi dissero essere stato da Lonigo ma non lo trovai; anche l'autista della corriera lo cercò ma non riuscì a rintracciarlo.
Ho pensato tante volte a lui ma non so come rintracciarlo; ogni volta che prego lo ricordo e lo raccomando a Sant'Antonio: loro due mi hanno salvato la vita.
La nostra famiglia venne però ancora provata alcuni anni dopo nel 1967 quando il fratello minore Daniele, che allora aveva 17 anni, subì un grave incidente. Stava andando a prendere il pane con la mia moto quando, poco prima di arrivare alla contrada Cruni perse il controllo e andò a sbattere la testa contro un sasso riportando gravissime lesioni. Fu ricoverato immediatamente all'ospedale di Asiago dove i medici diagnosticarono che non c'era nulla da fare. La mamma Ida disperata si rivolse subito a Sant' Antonio e invitò tutti ad avere fede e pregare. Siamo rimasti accanto al letto tutto il giorno e ci apprestavamo a restare anche la notte quando verso le 11 l'assistente del primario, essendo quest'ultimo assente, ci disse che il ragazzo era forte e che avrebbe tentato un intervento.
A noi non sembrò vera una simile decisione e abbiamo avuto un flebile segno di speranza. La mamma che era sempre china a piangere e a pregare si risollevò un po'. Uscì dalla sala operatoria al mattino e rimase privo di conoscenza per molte ore poi però cominciarono i primi segni di vita e ricordo che è stato per noi un momento indescrivibile; anche il chirurgo che l'aveva operato fece le lacrime. Tutto andò bene e Daniele tornò a casa. Fu ricoverato anche altre volte ed ancora si trovò in punto di morte, sempre a causa dell'incidente, tuttavia riuscì dopo alcuni anni a guarire completamente.
Io sono certo che anche per lui c'è stata la mano di Sant'Antonio e tutta la nostra famiglia lo venera e si rivolge a lui con preghiere particolari nei momenti difficili.
Ogni anno nel mese di giugno celebriamo una messa nel capitello alla quale oltre alla famiglia partecipano molti abitanti delle Contrade e del Paese."
TESTIMONIANZA DI MARCOLONGO DOMENICO (TOGNETI) NATO 09/03/34
CURATA DA PAOLA CAPPELLARI - FOZA